La parola “default” è come un lucidalabbra: è sulla bocca di tutti!
Il termine è di origine inglese e significa inadempienza, omissione. Solitamente è abbinato al linguaggio informatico, dove indica lo stato di base di programmi, computer, apparecchi, prima che sia oggetto di interventi specifici.
Più recentemente, però, questa parola è entrata anche nel gergo finanziario per indicare, in sostanza, il fallimento di una società (o di un’intera nazione) che non riesce a rimborsare i propri debiti secondo il piano previsto con i creditori. Di fatto è inadempiente.
Negli ultimi mesi si è molto parlato del rischio di default della Grecia, patria non solo di illustri poeti e filosofi ma, a quanto pare, anche di discutibili amministratori e contabili.
Che cosa succede in casi di default?
Il default di uno Stato però non è mai totale: solitamente il suo debito viene “ristrutturato” dilazionando i pagamenti con i creditori, mentre contemporaneamente viene “costretto” ad aumentare le entrate, cioè le tasse, e a ridurre la spesa pubblica.
Banche. Una volta dichiarato il default, anche se parziale, lo Stato non sarebbe comunque più in grado di pagare subito gli interessi su Bot e Btp, né di rimborsare il capitale: la ristrutturazione del debito dilazionerebbe i termini di pagamento, ma ciò farebbe crollare il valore dei titoli rendendoli invendibili.
Le banche, tra i principali possessori di titoli di Stato, si troverebbero improvvisamente a non avere le entrate degli interessi e rischierebbero a loro volta di fallire. I cittadini, spaventati dalla situazione, inizierebbero a prelevare i loro risparmi dalle banche aggravando ulteriormente la crisi. Le aziende private e le famiglie si troverebbero a non aver più credito da parte delle banche: la produzione si fermerebbe così come i consumi, alimentando un pericoloso circolo dal quale diventerebbe sempre più difficile uscire.